De Bello Altenarico – seconda parte: Su TerraSat

di Laurel Samua

(continua dalla prima parte)

– Commissario speciale Alice Laroq.
– I miei omaggi. Si dice ancora così?
Vuole essere una battuta: non è che sia passato così tanto tempo, dall’ultima mia visita qui. Il Commissario speciale, invece, mi prende sul serio:
– Su qualcuna delle settanta stazioni di sicuro, quindi a noi va bene: siamo tutti umani allo stesso modo, giusto?
Fingo di non notare la velata minaccia di quelle parole e abbasso lo sguardo sul lettino in cui mi trovo.
– Mi scusi se non mi alzo per salutarla…
Mostro i tubi della flebo, lei finge di interessarsi:
– Come sta?
– Meglio. Ieri mi hanno persino dato da mangiare. Un vero pollo, non ci potevo credere.
– Giusto. Non ci avevo pensato. Che cosa mangiavate, su Altenar?
– Sa che non ne ho ricordo? Siamo stati otto mesi su quel pianeta e nessuno di noi sa dire che cosa mangiasse, quanto dormisse… se dormisse. Niente di niente.
– Capisco. La testa come va? Lei, nello specifico, sta meglio?
– Talvolta. Ci siamo accorti di non riuscire a dominare i nostri disturbi, le istruzioni, ma solamente a intervalli.
– Le istruzioni?
– Le abbiamo chiamate così. Pensiamo che sia quello, ciò che ci impantana i cervelli.
– Istruzioni da parte di chi? Degli Altenariani?
– Crediamo di sì. La nostra mente non le capisce ma talvolta si blocca come se seguisse degli imperativi indipendenti dalla nostra…
– Ne ha parlato col Dottor Reuenwahl?
– Il signore che ci ha tenuto compagnia alla radio durante il recupero?
– Sì, lui.
– Glielo abbiamo spiegato. Sul generale, però, senza entrare nel dettaglio di quel che accade…
– Capisco.
– E visto che ora invece ci state ascoltando separatamente, pensavo…
– Sì: difatti è così. Tuttavia non sarò io a occuparmi di questo aspetto.
– D’accordo. Di cosa si occupa, dunque, lei? È qui per arrestarmi?
Erano giorni ormai che mi trovavo in ospedale e il nostro furto sembrava non interessare a nessuno: non avevo più visto gli altri ma per il resto mi trattavano con una premura che di solito non si riserva a chi ti ha soffiato davanti al naso quell’astronave con cui speravi di conquistare le stelle… Nemmeno Alice ha l’aspetto di un poliziotto o di un magistrato. È un problema: non capisco che cosa vogliano da noi.
– Anche questo lo farà qualcun altro. Io mi occupo di capire qualcosa di questa crisi.
Non posso che abboccare all’amo.
– Cosa significa, crisi?
– Ciò che sta alle basi del nostro conflitto con gli Altenariani.
– Ah, ma in che senso, scusi? Siamo in guerra?
– Certo, la stazione TerraSat ha dichiarato guerra ad Altenar qualche mese fa. Dopo che siete stati catturati, per essere precisi, e le stazioni più prossime si sono alleate con noi. Ovviamente.
Ancora nessun accenno al furto, ma la guerra non me l’aspettavo davvero. Anche se spiegherebbe l’assenza delle navi altenariane nell’hangar. E poi quelli di TerraSat non dispongono di navi per sostenere un attacco nemico… o forse sì? Le domande erano troppe:
– E dove si trovano i fronti? In che rapporti sono le nostre forze? Anzi, no: prima di tutto, siamo stati attaccati? Abbiamo subito perdite?
– Non ancora. Nessun attacco, per adesso, ed è proprio per questo che il Governo ha bisogno di informazioni da voi: vogliono sapere quali siano le strategie del nemico, come si comporta, come ragiona.
Lei sembra voler aggiungere altro, o forse solo farmelo capire, ma io la interrompo e cerco di recuperare terreno.
– E adesso lei sta cercando di capirci qualcosa? Mi sta dicendo che abbiamo dichiarato guerra e non sappiamo che cosa fare?
– Signor Molpehowa…
– Dammi del tu, Alice. Su LunaSat si usa così.
– Signor Molpehowa, la guerra è una cosa, la crisi un’altra.
Eccoci. Lei prosegue.
– Della prima si occupano i militari, e io, come vede, sono un civile. L’apparizione dell’ambasciatore altenariano, un anno fa, ha modificato molte cose che fino a un minuto prima noi di TerraSat, come tutti gli altri bipedi, lei compreso, davamo per scontate. Sto parlando di cultura, idee, speranze.
– Il nostro modo di vedere l’universo?
– Le nostre più profonde convinzioni, che naturalmente gravitavano attorno all’essere umano. L’essere fatti a immagine e somiglianza di Dio, per dirne una, cosa che ovviamente adesso porta con sé dei problemi.
– Ne deduco che lei si occupa di capire in che modo l’umanità si possa adeguare a simili… scossoni?
– Mutamenti culturali, sì.
– E ora vuole sapere con chi abbiamo a che fare davvero. La vera faccia del mutamento culturale che ci troviamo ad affrontare.
– Esatto. Ci interessa sapere quanto più possibile su chi l’ha tenuta prigioniero per tutti questi mesi.
– Temo di doverla deludere, non potrò aiutarla molto: io gli Altenariani non li ho quasi mai visti.
– È rimasto collegato alla loro rete.
– Il groviglio, sì. Una cosa disgustosa.
– Questo mi basta: voi avete avuto modo di sentire i loro pensieri e io voglio sapere quali fossero.
– Le ho già accennato al fatto che non li capivamo.
– Ma talvolta vi comportate come se aveste assimilato per bene quelle istruzioni. Nel vostro cervello c’è tutto ciò che ci interessa.
Ecco perché non ci arrestano! Hanno bisogno di poterci infilare in un laboratorio, non in una cella.
– Lei pensa davvero che ci abbiano dato accesso ai loro pensieri più profondi? Che ci abbiano mostrato la loro natura?
– Signor Molpehowa, lei lo sa quale sia la più grande differenza tra gli Altenariani e noi bipedi? A parte le differenze fisiche, naturalmente.
– Si riferisce alle differenze psicologiche.
– Naturalmente.
– Bene: da ciò che ho capito, ad Altenar le identità si fondono in un unico grande cervello, per dir così: gli alieni condividono tutto tra di loro, bisogni, speranze, necessità, intuizioni… Ci hanno connessi nella loro rete perché non potevano nemmeno concepire l’esistenza di esseri viventi che non comunicassero per davvero. Non riescono a spiegarsi la vita di esseri separati tra di loro al punto da dover inventare un mezzo di comunicazione esterno, una serie di convenzioni con cui trasmettersi dei concetti.
– Quindi ciò che ci differenzia, secondo lei, è l’esistenza di un linguaggio?
– No: è la volontà di usarlo. Ciò che distingue noi da loro è che noi potremmo anche decidere di non esprimerci, se lo volessimo. E questo per loro è aberrante, visto che ogni loro pensiero è immediatamente un pensiero a disposizione di tutti.
– Ci ha quasi preso, Signor Molpehowa. La vera differenza è l’esistenza di una volontà individuale. Noi ce l’abbiamo e loro no. Ma la nostra volontà individuale è in grado di realizzare anche ciò che va contro le necessità della nostra stessa specie.
– Intende dire che loro non sono in grado di danneggiarsi ma noi sì?
– Esattamente. La nostra psicologia contempla il tradimento, la manipolazione mentale, ogni sorta di inversione di segno… ma anche la semplice separazione dal gruppo, il voler vivere isolati. Volerlo, badi bene: ogni singolo individuo bipede ha una sua precisa, ma debole, volontà.
Che la mia iniziativa, per quanto non del tutto individuale, sia tenuta in così poco conto sta colpendo con energia la mia vanità.
– Non è affatto debole. C’è dentro tutta la forza di una vita, del proprio istinto.
– Una forza irrisoria che svanisce, di fronte alla volontà congiunta di tutto un popolo. È questo il punto: gli esseri umani sono scissi tra due volontà, la propria e quella collettiva, mentre gli Altenariani riescono a concepire solamente un’unica verità, quella cui avete sicuramente avuto accesso voi. E che noi vogliamo conoscere.
– La volontà popolare non esiste, Alice, è un’illusione: si compone di singole unità che vorrebbero essere rispettate una per una, non le fonde affatto insieme.
– E invece gli Altenariani sono lì a dimostrarle che si sta sbagliando. Loro sono forti, infinitamente forti. E io devo riuscire…
Santo Dio, ora capisco. Lei li ammira. All’arrivo degli Altenariani su TerraSat il presente non era più come doveva essere. Perlomeno, non come doveva essere nei piani di Alice, nei piani del governo.
– Adesso so quale sia il suo ruolo, Alice. Ha scoperto che qualcuno sa fare il suo lavoro meglio di lei e vorrebbe poter essere come quel qualcuno.
Lo sguardo della donna ha un lampo; ci ho preso in pieno e non so nemmeno perché.
– Lei cerca di intervenire nei modi di pensare, nelle abitudini delle persone che abitano e lavorano su TerraSat. Lei fa del controspionaggio un’arte raffinata e attiva.
– La cosa non è affatto…
La ignoro e continuo:
– Le piacerebbe se fossimo tutti connessi come gli Altenariani e, in attesa di quel giorno, lavora per pilotare i mutamenti culturali. Non ci sono luoghi comuni, bensì soltanto i luoghi di Alice.
La funzionaria riprende il controllo:
– La sua fantasia è vivace ma datata, signor Molpehowa: forse nemmeno nelle epoche precedenti avevano azzardato simili ipotesi complottistiche. Crede davvero che il Governo abbia tempo da perdere in queste sciocchezze? Ha idea dello sforzo che richiederebbe un simile controllo della cultura?
– Nemmeno poi tanto: le stazioni coloniali sono poco abitate, in genere. E sono tutte alla ricerca di nuovi pianeti che sostituiscano la Terra, per cui è logico che in qualcuna di esse si cerchi di preservare le vecchie tradizioni e gli usi. Il vero punto debole l’ho citato io stesso: ognuno ha una sua volontà, anche se lei sembra non volerle dare peso, e questo vale anche per chi ha influenza sugli altri. Per lei, per esempio.
– Mi fa piacere che lo riconosca. E quindi? Cosa resta della sua teoria?
Non le rispondo nemmeno: sto ripensando alla forza di quell’intuizione, alla quantità materiale di verità con cui sono stato colpito. Cos’era, quella? Un’idea? Non ne ho mai avute di così vivide, di così… dirompenti. Era un movimento quasi fisico del mio cervello. Ignoro Alice per un po’: altro che volontà! Ciò che distingue un bipede da un alieno è diverso. Ben diverso. Povera Alice. Probabilmente sta pensando ch’io sia caduto in uno stato catatonico, forse si sta chiedendo se io sia pericoloso. Le lascio pensare ciò che vuole, visto che lei può.
Ma poiché non ottiene più niente da me, dopo qualche minuto mi lascia. Resto immobile, incantato, attonito a fissare il nulla e a pensare a quell’idea che mi ha colpito, investito con forza, investito di forza: era un pensiero che aveva conferito peso a me. E mentre sono perso a guardarmi dentro riesco a perdermi tutto quanto il fuori: lo ribalto come un guanto, quel che avevo dentro è all’esterno e quello che era all’esterno ora è dentro. Una visione atroce mi assale e vedo cose che non esistono. Non possono esistere. Le vedo poi gli occhi le cedono a ciò che mi sta intorno. Finché piano piano questa parentesi si chiude, lentamente, e con delicatezza vengo riportato qui. Non capisco cosa sia successo né quanto tempo sia passato… non sono più in grado di affrontare ciò che mi circonda, non lo capisco; i miei occhi non riescono ad adattarsi a ciò che dovrebbero guardare, vedere, assimilare. Sono di nuovo nell’ospedale. Su TerraSat. Ma per un istante, chissà per quanto, ero altrove, e niente mi potrà convincere che quello non fosse il pianeta Altenar. Nel qual caso sono fottuto. Una profonda spossatezza mi si avvinghia alle braccia, alle gambe, e senza nemmeno accorgermene, con una vertigine davvero molto umana, perdo i sensi e sprofondo nel deliquio.
Mi sveglio che sono in un’altra stanza, forse in un’altra struttura: legato ad altre macchine, vestito in modo diverso. Mi guardo attorno lentamente, per non farmi attanagliare dalla nausea, e scorgo Alice. Non ne sono molto sorpreso, ma stupidamente grato, quello sì. Non riesco nemmeno a sorriderle, tutto quello che posso fare è respirare, e anche quello non mi viene un granché bene. Impiego almeno un paio di ore e piano piano riesco a parlare, ad alzarmi a sedere, persino a bere qualcosa. Non chiedo che giorno sia, ché tanto non mi servirebbe a nulla. Alice mi spiega che è stato necessario trasferirmi qui, qualunque cosa sia il qui, e si dice contenta di vedermi sveglio. Forse non ci contava nemmeno più, chissà. Torno a dormire e il mattino dopo va molto meglio. Quando Alice torna a trovarmi chiacchieriamo di niente per un po’, mi fa bene, ma d’improvviso si apre la porta e ne entrano due ufficiali in divisa. Il più vecchio resta indietro di un passo e lascia che l’altro attraversi la stanza e si ponga alle mie spalle. Poi ci parla, direttamente dall’uscio.
– Voi siete un problema.
Alice interviene:
– Generale, cosa…
– Silenzio, e ringrazi il suo capo se non la caccio di qui.
Non mi piace un granché, quell’uomo: ha un che di artefatto, quasi teatrale. Provo a capire la situazione ma ho il cervello intorpidito:
– Non ci hanno ancora presentati.
– Silenzio anche lei: risponda al Generale solo se interrogato.
L’amichetto del generale sembrava non aspettare altro: teatrale anche lui quanto il suo capo. Alice ci riprova:
– Lei non può cacciare proprio nessuno, Generale, sinché il mio mandato ha ancora valore. E ce l’ha, vero?
Mi sembra di capire che Alice stia sfidando il nuovo venuto, come per capire se questi si sta ancora muovendo nell’ambito della legalità o se è qui per forzare le cose.
– Non ho tempo da perdere. Mi è stato affidato l’incarico di interrogare questi … “signori” e lo farò a modo mio.
– Ce l’abbiamo noi, questo incarico, e se intende defraudarci del…
Non faccio in tempo a chiedermi chi possa essere quel “noi” che il generale interrompe Alice:
– Il Dottor Reuenwahl si occupa di psicologia, mentre questi signori verranno processati dal sottoscritto.
– Che cosa?!
– È come ho detto. Voi banditi.
Si volta verso di me. Poi continua.
– Rappresentate un problema. Avete fatto la cosa più stupida che si potesse fare e ora il governo si occuperà di voi.
Parlo a fatica, non mi sento del tutto pronto ad affrontare questa cosa:
– Immagino si riferisca al furto. Per quello sono pronto ad affrontare il tribunale, che tuttavia non mi aspettavo essere militare.
– Non è il furto. Non vi sareste dovuti far catturare. Siamo in guerra, Signor Molpehowa, e con “siamo” intendo tutti: TerraSat, LunaSat e VegaSat, ma anche le altre stazioni, per quanto ormai lontane, tutte contro Altenar. Ogni avversità tra di noi si deve appianare. Avreste dovuto dimostrare un po’ di patriottismo, pur essendo dei volgari ladruncoli.
Ancora una volta a nessuno interessa del furto: grandi fanatismi ma nessun processo civile. Mi sembra che il Generale stia forzando un po’ la narrazione dei fatti: a sentir lui eravamo in guerra da sempre, così voglio vedere dove va a parare.
– Intende dire che ci saremmo dovuti far esplodere?
– Quella sarebbe stata un’azione patriottica, sì. Facendovi catturare, invece, avete creato un’enorme difficoltà, lei e i suoi compagni.
– E credete di poterci processare per il fatto di esserci fatti catturare da una civiltà aliena che in quel momento era in pace con noi?
– I casi sono due: o voi quattro siete degli idioti, e avete permesso a una razza aliena di studiare e capire le debolezze della nostra mente, o siete dei traditori, delle spie vendute a quei… mostri. In entrambi i casi vi siete comportati da antipatrioti, e sarete giudicati da un tribunale militare.
– Sta scherzando, Generale: la legge marziale non è affatto…
– Generale, posso chiederle Che Cosa Ci Fa Qui?
– Dottor Reuenwahl, buongiorno.
Alice si alza di scatto, poi mi guarda di sottecchi per capire se me ne sono accorto. Ma anche il Generale ha una reazione di disagio all’apparire di quest’uomo. È vestito di bianco e di grigio, con un foulard scuro che s’intona al colore degli occhi.
– Dottor Reuenwahl, felice di vederla. Stavo giusto cominciando l’interrogatorio dei prigionieri.
– I prigionieri di chi?
Il Generale fa una smorfia di sconforto: sembra un bambino colto in flagrante.
– I prigionieri della Stazione Coloniale TerraSat.
– Bene, quindi immagino di poter considerare questi “prigionieri” a mia disposizione, vero?
– Il Comando Militare desidera avere i prigionieri sotto la propria tutela.
– Il Comando Militare lo chiederà al Governo nelle sedi più opportune. Per il momento queste persone sono affidate a me.
Il Generale se ne va seguito dall’altro militare. Il dottor Reuenwahl si rivolge a me con fare amichevole:
– Buongiorno, Signor Molpehowa. Chiedo scusa per l’inconveniente, ma può rilassarsi: quell’uomo non ci proverà di nuovo tanto presto.
– Buongiorno, Dottor Reuenwahl. Felice di conoscerla, finalmente. Sembra più alto che in radio.
L’uomo sorride. Rivolge un’occhiata ad Alice, che mostra un po’ di imbarazzo e rivolgendo al muro una specie di “Vogliate scusarmi” si alza ed esce dalla stanza.
– Bene, un po’ di tranquillità, finalmente. Veniamo a noi: come sta?
– Lei è qui per le visioni?
– Sì, ma non solo. Mi interessa sapere tutto. Come si sente?
– Lucido e tagliente in testa, contemporaneamente su Marte con lo stomaco. È una sensazione spaventosa, quando si è convinti che ci si dovrebbe sentire in tutt’altro modo.
– La capisco perfettamente.
– Davvero?
– Lei non è più un ragazzino e conosce le forme che le sue emozioni, la sua mente assumono. Ha esperienza. E qualsiasi stimolo inatteso la insospettisce, quantomeno, e questi stimoli qui, nello specifico, …
– … sono inattesi sul serio. Ha ragione: mi capisce.
– Vuole parlarmi di ciò che vede?
– È difficile. E poi non è del tutto corretto dire che vedo. Per lo più sento.
– Ad esempio?
– Con tutto il corpo. Quello che ho in testa ce l’ho davanti agli occhi e tutto intorno a me, dentro me. Una volta ho visto il mio dolore.
– Continui.
– L’ho visto così come lo si sente di solito, con il corpo. Sentivo dolore, vedevo sangue.

Vedo un pannello di controllo liquido e totalmente imprendibile, inafferrabile: non sono leve, però, né bottoni o schermi… nulla che abbia a che fare con un’astronave, un mezzo con cui perdere la strada per casa. È invece un fluido, tanto potente e concentrato da controllare tutto ciò che ti arriva in testa e si metta a circolare, serotonina sostanza p acetilcolina. Ma non è eroina: è sangue, per Dio. Sangue, per lui, fluido stracarico, un bastimento carico carico di.

– Diceva del suo dolore?
– Mi scusi, mi devo essere imbambolato. Ero assente, vero?
– Già.
– Come un ragazzino innamorato. Mi suona nella testa una vibrazione che segue una linea precisa, da qui a… Non so, mi scusi.
E improvvisamente, senza motivo, capisco. La pantomima del Generale è stata fatta a mio uso e consumo e beneficio. Stanno cercando di minimizzare la questione del furto e ventilare l’ipotesi che le mie grane potrebbero essere ben peggiori, se finissi tra le grinfie di quelli sbagliati. Come a dire: il dottore sì che è una brava persona. E riesce a mettere al suo posto persino i militari. Collabora con lui e vedrai che non ti succederà niente.
Bene: è la seconda volta che le idee assumono questa forza, questa forma. Cercherò di capire che cosa stia succedendo nella mia testa, ma per ora questa gente mi ha involontariamente dato l’imbeccata su come difendermi: il furto della navicella non interessa a nessuno eppure è l’unico motivo con cui ci possono trattenere. Io, invece, posso non potere per un tempo infinito: apro al cielo un occhio, apro alla luce anche l’altro, vedo il bianco e vedo il blu, siamo un io assieme a un tu…
E nel mio sguardo siamo uniti.
– Signor Molpehowa?
– Sì, ci sono. Sto bene, sto bene.
– Ha avuto una delle sue visioni?
– Vuole che glie la racconti? È per questo che lei è qui?
– Io sono qui per aiutarla. Posso farlo.
– C’è un solo modo per aiutarmi. Dov’è il mio avvocato?
– Prego?
– Sono certo che mi occorrerà un avvocato, per difendermi al processo.
– Non è di questo che stiamo parlando ora.
– No, e difatti ne sono sorpreso. Io mi trovo qui perché accusato di furto, e immagino che qualsiasi altra vostra azione nei miei confronti non possa che essere considerata fuorilegge. E non farà che scatenare le proteste di LunaSat.
Forse quello non è stato un accenno molto furbo: il Dottore sembra aver recuperato improvvisamente terreno.
– Già che ne fa accenno, LunaSat non ha alcun motivo di protestare, dato che si è resa colpevole di furto e che per espiare il tradimento si è alleata con noi contro Altenar. Non lo sapeva? Ora lei e i suoi amici siete accusati da tutte le stazioni coloniali, congiuntamente, di aver dato origine al conflitto, e la questione del furto è di secondaria importanza.
Questo cambia effettivamente le cose, ma non posso cedere così:
– Bene, se queste sono le accuse contro di me ho un motivo in più per voler vedere il mio avvocato.
– È un modo per dirmi che non intende collaborare?
– Lei vuole conoscere le strategie del nemico, di un nemico stranamente immobile, allo stesso modo in cui Alice vuole sapere quali siano i processi mentali che permettono a un individuo di diventare un popolo. Immagino che la tortura non sia servita, con l’ambasciatore alieno.
– Ma…
– Quell’essere è rimasto qui su TerraSat a lungo: quattro mesi interi senza far nulla, senza riuscire a comunicare con voialtri né, immagino, con il proprio pianeta. Posso capire la sua frustrazione, ma anche la vostra. Probabilmente avete deciso di usare la forza, tutte le forze che conoscete, elettricità gravità spinta e tutto l’arsenale. Nessun risultato, vero? E poi arriviamo noi, che vi rubiamo la nave ma, otto mesi dopo, capitiamo di nuovo qui, dopo otto interi mesi trascorsi a stretto contatto con il vostro nemico, e non vi sembra vero di poterci spremere. Che fine ha fatto l’ambasciatore?
– Lei e i suoi amici farete una brutta fine.
Non ne dubito. Cercherò di fare in modo che lei non ne abbia a che fare.

Rimasi in quella specie di ospedale per parecchie settimane, durante le quali non mancarono di farmi sapere quanto fossi ormai isolato dalla mia patria. LunaSat ci aveva scaricati, me e gli altri, e se anche non lo avesse fatto era ormai tanto lontana da qui che sarebbero occorsi due mesi di volo con le navicelle di servizio per arrivarci: e due mesi era praticamente ormai l’autonomia massima di cui le navicelle erano capaci con un equipaggio di due sole persone. La nostra patria si stava allontanando velocemente e ci stava esiliando un poco di più ad ogni ora che trascorreva. Ciò che queste persone volevano da noi era sapere tutto dei piani degli Altenariani e quando dicevo loro che non c’era alcun piano, invece di spaventarsi preferivano non credermi. Scoprii che il Dottor Reuenwahl era una specie di eminenza grigia del governo, un uomo ombra. Potentissimo e temuto, come ebbi modo di notare dagli atteggiamenti dei suoi collaboratori-comparse. Mi accusavano di spionaggio ma non potevano far altro che tenermi segregato quaggiù.
Mi anticiparono anche che un equipaggio militare avrebbe provato di lì a pochi giorni a far volare la nave dell’ambasciatore altenariano: non avevano bisogno che io o gli altri spiegassimo loro niente, volevano solamente renderci partecipi del loro definitivo appropriarsi del volo interstellare. Appropriarsi che probabilmente non vi fu, poiché nelle settimane successive nessuno tornò più sull’argomento né mi spiegarono come andò a finire il loro volo di prova. Ovviamente io non dissi mai loro che li avevo percepiti da qualche parte nella mia testa, due uomini e due donne, i volti terrorizzati, immersi dentro un liquido bombardato da piccole pietre, con nelle orecchie una spugna che cresceva a dismisura… Ma me lo tenni per me, tanto più che ero ormai convinto che anche quell’equipaggio, come noi, fosse capitato, chissà come, su Altenar. Quella navicella non si lasciava dominare tanto facilmente.
Poi mi rilasciarono, e, se ero ancora capace di fare due conti, quella decisione coincise con il momento in cui l’autonomia delle navicelle era ormai inferiore al tempo minimo necessario per raggiungere LunaSat, anche solo con un unico membro a bordo: ero ormai definitivamente in esilio su quella stazione coloniale.
Mi dissero che non mi sarei potuto allontanare dalla Contea del Protettorato Massimo né tanto meno abbandonare la stazione, naturalmente. Io però avevo ormai voglia di rivedere un po’ di terra e di nuvole, per cui non me ne lamentai troppo. Per tutta questa storia non avevo fatto altro che stare in una scatola: la navicella, la prigione, di nuovo la navicella, le stanze dell’ospedale. E sentivo la nostalgia dell’aria carica di odori, degli alberi. E delle persone.
Su TerraSat il paesaggio era delizioso, allettante: veniva voglia di girovagare oziosamente. Si potevano scorgere laghetti inutilizzati e colline incolte, e l’unica differenza con il pianeta originario era la curvatura all’orizzonte, che nelle stazioni andava verso l’alto seguendo l’enorme tubo dentro cui vivono gli abitanti. Ma lì gli spazi erano organizzati in modo diverso che da me, su LunaSat: lì c’era una densità di popolazione minore e molti più appezzamenti liberi. Quasi tutto il nutrimento necessario proveniva dalle colture idroponiche e i coloni si erano potuti permettere spazi aperti e liberi su cui investire in futuro.
In quella contea trovai un colle con qualche pianta in cima: dei cipressi, forse, e una specie di abete che non avevo mai visto prima. Cominciai a frequentare quei luoghi. Non fui troppo sorpreso quando vidi giungere Reno.
– È un bel posto, questo.
– Sapevo che ti avrei trovato qui.
– Davvero?
– Beh, non tu. Qualcuno degli altri. Tutti. Avevo l’impressione che questa collina avrebbe potuto attrarre anche voi con la stessa forza con cui attraeva me.
– Forse capisco. E devo dire che un po’ ci contavo, di rivedervi. Anche se non ho idea del perché dovremmo trovarci di nuovo.
Non parlai dell’esilio, né lo fece lui. Glie ne fui grato.
– Ti hanno interrogato?
– Hanno finito pochi giorni fa. Tu?
– Ci hanno impiegato molto meno, sono in giro già da un po’. Credo mi considerino particolarmente stupido, quindi ininfluente.
– È il loro problema: concentrarsi sull’influenza che ognuno può esercitare sul gruppo e dimenticarsi le singole individualità.
– Fammi indovinare: hai parlato con Laroq anche tu…
– Alice, sì. Tra gli altri.
– Un lavoro curioso, il suo. Che ne pensi?
Non mi sfugge il fatto che anche Reno abbia indovinato il ruolo di Alice.
– Ogni stazione coloniale si regola come vuole. Sono problemi loro.
– Non lo pensi per davvero. Sai quanto me che non possiamo permettere che una stazione coloniale vada in malora, per lo meno sinché qualcuna non ce la fa. Ognuna di esse ha una missione…
– Per favore, non cominciare a fare il romantico…
– È così! Dobbiamo garantire che gli esseri umani arrivino su altri pianeti, prima o poi, e il tempo gioca a nostro sfavore. Più tempo impieghiamo, più rischiamo che la generazione che ce la farà sia molto diversa da quella che ha lasciato il Pianeta Originario.
– La diversità non mi spaventa, non corriamo nessun rischio. Lo si sapeva sin dall’inizio, sin da quando si sono imbarcati i nostri nonni e ci siamo sparpagliati ovunque: nessuno avrebbe potuto prevedere come ci saremmo arrangiati, evoluti, sistemati. Faceva parte del gioco. Ma ora, francamente, sono un pochino stanco dell’umanità.
– Stai mentendo. Lo fai per provocarmi.
– Ascolta, allora. Se davvero avessimo tutti a cuore il destino dell’essere umano, perché nel momento in cui incontriamo un alieno, finalmente un alieno vero, riusciamo subito a gareggiare tra di noi per essere i primi a possedere qualcosa che gli altri non hanno? Dov’è finita la fratellanza tra uomini?
– Era proprio questo, il tuo fantoccio.
– Come?
– Su Altenar. Quando non riuscivamo più a considerare le nostre complessità e semplificavamo tutto, ricordi?
Lara dal fare affilato.
– Sì, ricordo.
– Ecco, l’immagine che io avevo di te era proprio quella: un depresso cinico e anaffettivo.
– Mmmm… stai dicendo che sto cadendo di nuovo nei vecchi errori?
– No, che c’entra? Questi sono affari tuoi, mentre allora il problema era mio: ero io a non saper guardare e vedevo invece solamente una cosa sola, probabilmente l’unica che volevo vedere. Ora ti sto dicendo che questo tuo modo di fare, su tutti gli altri, mi aveva molto colpito.
– D’accordo, riproviamo daccapo. Vale la pena salvarci tutti. Va bene come inizio?
– Di sicuro lo è. Un inizio, dico. Continua.
– Era il piano originale: sparpagliare l’umanità nell’universo sperando che qualcuno di noi trovasse un pianeta abitabile, prima o poi, in grado di sostituire quello originario, che abbiamo dovuto abbandonare. Ma fino a quando possiamo ci dobbiamo dare una mano a vicenda.
– Vai avanti.
– Questo tipo di mutuo soccorso è a orologeria: piano piano tutte le settanta stazioni si allontanano l’una dall’altra e prima o poi ognuna si troverà isolata, come noi ora dalla nostra. I vari Ambasciatori visitano i vicini finché possono e si scambiano informazioni e suggerimenti, ma alla fin fine chi decide è il Governo di ogni stazione, che dovrà diventare autonomo, prima o poi.
– E a questo punto arriva un’astronave aliena.
– E a questo punto arriva un alieno. Che quelli di TerraSat fanno salire a bordo in gran segreto e probabilmente interrogano, peraltro inutilmente. Non ottengono informazioni ma nemmeno pensano di darne a noialtri, che nel frattempo subodoriamo qualcosa grazie proprio ai mutamenti culturali di cui parla Alice: è parlando di Religione con qualcuno qui che il Conte capisce che qualcosa sta accadendo, e al suo rientro il nostro governo decide di intervenire e prendersi la nave aliena, sottraendola a TerraSat.
– Quindi entriamo in scena noi. Ma abbiamo fatto bene? Voglio dire, avevamo il diritto di impedire a loro di studiare la nave? Solo per poterlo fare noi?
– Capisco quello che intendi: dopo il nostro intervento sconsiderato né noi né loro siamo stati in grado di capire qualcosa del volo interstellare. Abbiamo impedito a dei nostri simili di evolvere le loro conoscenze. Ma d’altro canto tu davvero pensi che noi di LunaSat avremmo dovuto sacrificarci per loro? Hai idea di cosa sarebbe successo, se avessero avuto a disposizione quella tecnologia?
– Questo è ciò che ci hanno raccontato. Ora però ragiona con la tua testa: l’abbandono della vecchia idea delle stazioni coloniali è davvero una cosa così terribile?
– Non lo so, Reno, non lo so. So solo che quando noi abbiamo fatto la nostra mossa, completamente fuori legge, questi hanno subito dichiarato guerra ad Altenar per distrarre gli sguardi e salvare le apparenze di fratellanza e cooperazione tra umani. E infatti le altre stazioni si sono subito alleate. Forse non è alto tradimento, ma di sicuro è un cupo rimaneggiare che ricorda tanto l’Epoca d’Oro.
– Mi sembra che il romantico, tra i due, sia tu. Hai l’impressione che non sia cambiato nulla.
– Esattamente. Una cosa straordinaria, per degli esseri umani, vero? Fanno un sacco di cose, agiscono, si agitano e pianificano e alla fine ottengono i soliti risultati: la guerra.
– Io credo che tu stia continuando a prendermi in giro, ma non mi chiedere perché io lo pensi, poiché non lo so io stesso. Del resto non è così importante. Ecco il Conte.
– Ah! Lo vedo. A questo proposito…
– Quale?
– I pensieri che non sai perché ce li hai.
– Sì. È capitato anche a te?
– Già. Vorrei riparlartene.
– D’accordo. Quando vorrai. Buongiorno, Conte.

Ci vedemmo tutti su quella collina per qualche tempo, forse due o tre settimane. Parlammo della guerra e degli interrogatori. Parlammo delle visioni che ci portavano altrove, e parlammo di cosa quell’altrove fosse. Non ero il solo a ritenere che in quei momenti tornassimo in qualche modo su Altenar. Era una prospettiva orribile, Altenar come unica patria rimasta: ma ormai avevamo capito che non saremmo mai più stati padroni di noi stessi né dei nostri luoghi.
Nessuno di noi parlò invece dell’esilio. Quello era diventato una specie di tabù, un argomento privato.
Io sarei voluto tornare volentieri su LunaSat, lo avrei desiderato davvero. Eppure Reno non aveva visto troppo male: forse cullavo da qualche parte della mia testa, senza volerlo ammettere, l’idea di intervenire in questa situazione. La volontà individuale e la volontà popolare. Avevo voglia di dimostrare ad Alice che il popolo è fatto proprio di individui. E che non sempre è utile delegare tutto ad altri: ci sono cose che vanno fatte da sé. D’accordo, allora: ci avrei provato. Avrei seguito in tutto e per tutto quel ribollire di pensieri e connessioni che ogni tanto ci prendeva, noi sopravvissuti, e avrei scoperto dove mi avrebbe portato.

Le grandi finestre, grandissime, danno su di un prato cinto da muri. Il prato è ampio anche lui, esteso e spazioso, ma irregolare: i muri riflettono la luce ognuno col suo angolo, ognuno in modo diverso, e circondano un disegno che non si coglie bene, a prima vista. Alla seconda nemmeno. Il disegno c’è ma non è rivolto a te. Smetti di guardare fuori. Guardi le finestre. Sono enormi. Varchi giganteschi da cui fuggire con l’immaginazione verso l’esterno. E da cui far entrare la luce dell’illuminazione centrale. È ancora mattino, troppo presto.
– Per me è un rischio accoglierla qui, signor Molpehowa.
– Per me è un rischio fare affari con chiunque, se è vero che ai traditori viene confiscato ogni bene.
– Guardi, non ne voglio sapere niente. Tradimenti, doppi tradimenti, tripli avvitamenti: se è vero che lei ha avuto un’idea, a me serve quella.
– L’ho avuta. E lei risparmierà sui costi di manutenzione dei moduli esterni.
– Bene, parliamone.
Riparare i moduli di servizio di una stazione coloniale implica attività extra veicolare: è fuori dalla stazione che è stato accatastato tutto ciò che non produce cibo. Disporre di terreno è fondamentale, per un colono, e tutto il resto può restare sotto il tappeto, per dire così: appeso all’esterno della stazione, per essere corretti. Questo però alza i costi di manutenzione in termini energetici, poiché una squadra di due operai che esce nello spazio significa due tute spaziali che restano operative per almeno tre ore l’una: ossigeno, elettricità e riscaldamento. Soprattutto riscaldamento.
È lì che ho avuto l’idea del termoregolatore cutaneo. Funziona innanzitutto su base chimica e agisce prima di tutto sulle percezioni dell’individuo, così da non fargli più sentire il freddo o il caldo. Ma ovviamente il freddo e il caldo ci sono ancora e hanno le loro conseguenze sulla salute: è qui che interviene la seconda parte del termoregolatore, quella che agisce sulla capacità della cute di regolare la temperatura corporea.
– È come una macchina che fa venire i brividi? Perché i brividi servono al corpo per regolare la temperatura, giusto?
– Giusto. Se vuole chiamiamola così, anche se con le mie tute i brividi non si percepiscono. La mano resta ferma, per fare un esempio, e non c’è alcuna ripercussione sulle prestazioni fisiche dell’individuo.
– E quindi con questo suo giocattolo…
– … chiunque è in grado di adeguarsi a temperature molto basse o molto alte senza alcun bisogno di vestirsi.
– In che senso?
– I suoi operai possono entrare nella tuta spaziale indossando solamente la loro biancheria e spegnendo i sistemi di compensazione termica. Un risparmio del 30% per ogni missione.
Era questo ciò che voleva sentirsi dire e gli occhi gli brillarono. Stavo per entrare in affari.
Fare e non-fare. Qualcosa nella mia testa faceva click ogni tanto e io avevo deciso di assecondare ogni click. Di agire, spasmodicamente, di lasciarmi trascinare dall’onda e agire. Noi siamo quelli che fanno. Pieni di paura, spingendo, mostrando, l’essere umano vincerà. Scosso dalla fretta. È un vascello che imperversa furioso, quasi a voler anticipare quel vento pieno che, per ora, lo trascina. Spingendo, remando, facendo vela: il vento non basta mai. Abbiamo bisogno di fare tutto, tutto è da fare e tutto va fatto. E non è mai a sufficienza.

Nelle Epoche d’Oro le storie che venivano narrate erano proprio così, d’Oro. E d’acciaio. E di pietra. Erano racconti roboanti, vi si potevano incontrare eroi e avventurieri, persone di ferro e grandi gesti generosi. Nelle Epoche d’Oro la narrazione delle storie mostrava ciò che si sarebbe voluto avere, i desideri più grandi, e i desideri riempivano i vuoti lasciati dalla loro assenza, poiché il primo pungolo del desiderio è proprio ciò che manca. Ormai ne avevamo la certezza: non esistevano eroi, nelle Epoche d’Oro, non fu mai esistito nessuno capace di quei gesti; non c’erano e li si desiderava, li si desiderava e non c’erano. Tanti secoli dopo, finalmente, i miei compagni e io eravamo gli eroi di allora: con le nostre menti estese e le intuizioni fulminee ci facevamo largo in un’umanità che ci guardava stupita. Con i nostri super poteri incantavamo chi non sapeva cosa farsene, di noi, perché gli eroi non li si voleva più, eravamo in ritardo, oppure in anticipo: le nostre idee, le nostre pensate non li toccavano se non in superficie. Ci agitavamo, li coinvolgevamo, li sorprendevamo, ma con tutto questo eravamo per loro profeti: prevenivamo, in ritardo, un desiderio futuro. Troppo futuro. E il fascino che esercitavamo era causa di ridolini e imbarazzi localizzati. Eravamo capitati in mezzo a loro inattesi come un’affermazione: cosa che dopotutto è una certezza anche quando è stata a lungo attesa.
Anche gli altri miei compagni avevano deciso di sfruttare le loro nuove capacità. I superpoteri del Conte gli avevano suggerito nuovi modi di preparare il cibo, quelli di Reno alcuni accorgimenti per individuare eventuali pianeti colonizzabili. Non vedemmo più Lara per tanto tempo, quindi non potevamo sapere se anche lei avesse intenzione di sfruttare queste capacità, sinché una sera ci incontrammo di nuovo tutti.
Sulla solita collina, ovviamente, al freddo della notte: che era indotta, certo, ma pur sempre notte.
– Credo che il mio termoregolatore avrà più successo di quanto pensassi.
– Sei già riuscito a costruirlo?
– Sì, ho un socio: lui lo usa per le operazioni esterne di manutenzione, ma se funziona posso cercare di convincere il governo di TerraSat a farlo adottare a tutti.
– Tutti chi?
– Tutti i coloni: tutti. Ogni stazione usa tantissima energia per contrastare le temperature esterne e per adeguarsi ai cambiamenti di posizione rispetto ai soli.
– Vero. Mantenere costante la temperatura in tutta la stazione è costoso.
– Ma non è proprio costante. Vengono simulati il giorno e la notte, credo che serva alle piante, e ci si deve cambiare comunque abbastanza spesso anche nel corso di una stessa giornata.
– Infatti: ma se usassimo tutti il termoregolatore non avremmo più bisogno di cambiarci. E potremmo permetterci scarti di temperatura ancora più elevati, che è esattamente quello che servirebbe alle colture.
– Vorresti proporre loro di risparmiare sui sistemi termici della stazione a condizione di far adottare a tutti il tuo termoregolatore?
– Pensateci: nessun bisogno di vestiti pesanti per andare ai campi.
– Nessun bisogno di vestiti del tutto.
Non fui l’unico a sorridere.
– In che senso?
– Beh, immagino che dipenda dalle temperature cui il termoregolatore può far fronte: ma con quell’aggeggio che bisogno avremmo di andare in giro in maglietta? Non ti serve più nemmeno quella.
Ci guardammo tutti un po’ straniti, ma l’idea prese immediatamente la sua forma; si trattava di lasciar scorrere i pensieri, in fondo, e la zattera sarebbe arrivata da sé con sopra tutto quanto.
– Ha ragione. È solo questione di tempo e forse anche di abituarsi all’idea: ma una prossima generazione potrebbe già non voler più indossare nulla. Si può restare nudi e il termoregolatore adeguerebbe il corpo a qualunque temperatura.
– Ma voi vi immaginate davvero che questi coloni, prima o poi, se ne possano andare in giro nudi?
– Credo sia questione di cultura. Ora non è nemmeno immaginabile, tra quarant’anni sarà una condizione normale.
– D’accordo, allora. Andiamo avanti: che conseguenze potrebbe avere?
– Il fatto di girare nudi?
– Il fatto di girare nudi.
– Va bene, proviamo. Immagino che un certo stimolo alla decorazione, all’abbellimento, non decadrà. Forse si coloreranno il corpo.
– Inventando mode?
– Sì, potrebbe essere: tinture e perline invece di stoffe e pelli.
– Mi piace. Non sappiamo bene come andrà a finire, ma dare una scossa a questi qui gli farà solo bene.
Guardammo Lara incuriositi: non aveva parlato sino a quel momento e la sua voce ci giunse quasi inattesa. Come a voler dare seguito ai nostri sguardi continuò:
– Anche io so cosa serve all’uomo, e glie lo procurerò.
– In questo non c’è niente di nuovo.
– Scemo. Parlo sul serio. Non uomo come maschio: uomo come non altenariano.
– Ah. Sembra importante, allora.
Lara continuò facendo finta di non aver sentito.
– Loro, gli Altenariani, non cambiano mai.
– Mai.
– Mai. Ma anche nell’uomo, tanto per cambiare, c’è una cosa che non cambia. Ed è il voltaggio del sangue. Non è vero che il nostro corpo non sopporta le tensioni, perché ne ha dentro una continua, priva di picchi, di sbalzi o di colpi in testa. Frrrrr, fa il motore, quasi al minimo. Non si tratta dei battiti del cuore o dei picchi della mente, quelli possono ritmare come credono, accelerare, rallentare. Fermarsi, persino: ma io sto parlando di un aspetto secondario della vita che richiede la costanza e il mantenimento di un flusso silenzioso.
Forse non era un flusso quello cui ci eravamo abbandonati noialtri ma di sicuro stavamo facendo silenzio. La guardavamo attenti.
– Rumore, forse, ne fa, questa tensione: ma non lo si sente quasi, da quanto è sempre uguale a se stessa. Sono anzi queste tensioni, con il loro impercettibile ronzio, a costituire la base su cui si poggia il silenzio, quel livello zero che non verrà mai meno se non, forse, quando tutti gli uomini del mondo moriranno, e la tacca resterà a un livello troppo alto e la scala graduata dovrà essere tarata nuovamente daccapo. Ma sino ad allora potremo continuare a ipotizzare quale possa essere il suono del silenzio, e il nostro motorino sarà felice di fare frrrrr. Si è capito cosa volevo dire?
– Non so gli altri, ma io ho capito. La nostra idea di silenzio dipende dalla vibrazione che noi stessi emettiamo e di cui solitamente non ci accorgiamo…
– … e quindi per esasperare il silenzio ti basterebbe esasperare il suono di bordone.
– Ovvero tappare le orecchie. Quello che ti rimane nel cervello è il frrrrr del motorino.
– Dio sia ringraziato, mi sollevate il morale: temevo mi avreste presa per matta. È questo che voglio fare: aprire dei locali in cui ognuno viene fornito di tappi per le orecchie: tappi veri, fatti bene: tutto ciò che arriva dall’esterno dev’essere decimato, debellato…
– Potrebbe essere il nome dei locali: Decidebell…
Ecco, forse il nome lo deciderò da sola. E una volta che gli avventori sono tutti dentro si chiudono gli ingressi, i camerieri distribuiscono i tappi per le orecchie, si tappano le orecchie, si sta un poco nel proprio brodo, nel ronzio della propria mente, si sorseggia qualcosa e poi insieme si stappa. Un silenzio diverso da quello cui ci si stava abituando, un’assenza di noi stessi che inquieta. Si fa fatica a essere i primi a parlare, a rompere il suono. Qualche sfidante cercherà di essere disinvolto, sapete, quello con la nuova fidanzata vuole far colpo e dice qualcosa di brillante: ma è fuori luogo. Suona strano, e qualcuno si mette a piangere. Liberato. E a quel punto è difficile trattenersi: ci manca il nostro silenzio. Non ci siamo abituati, abbiamo trascorso una vita a rimbombare di battiti cardiaci e mantici del respiro, giunture che schioccano e impercettibili contrazioni. Fuori dal nostro corpo è uguale, fuori dalla pelle emettiamo parole, suoni e rumori perché non siano inutili i rumori di dentro. È questo ciò che voglio cambiare io, nella loro vita: i tappi nelle orecchie faranno sentire il suono del nostro essere; toglierli ci toglierà anche quello e si sentiranno i suoni degli esseri altrui, tutto così ovattato da sembrarci bianco e morbido. Nessun contatto con ciò che mi circonda: io non suono più qui.

Capivo perfettamente quello che Lara voleva ottenere. Capivo tutti i miei compagni, perché la rabbia dell’esilio mi rodeva e cominciavo a pregustare il sapore amaro e vano della vendetta. Li avremmo plasmati a nostro piacere, avremmo imposto loro usi e costumi che presto non avrebbero saputo distinguere da quello che avevano sempre fatto. Altro che “dare una scossa a questi qui”: avremmo piegato i valori dell’umanità a ciò che ci sembrava più opportuno.
Guardai Lara e la vidi in mezzo a noi, con le mani in grembo, il volto serio, un uovo tra le mani, grande quanto un ventre di partoriente, la serietà di chi sta per dare alla luce qualcosa di incommensurabile, misterioso, intenso.
Lara sarebbe stata come tutti noi il veicolo di un contagio irresistibile, di un virus in grado di intaccare la solidità di abitudini secolari e mai messe in discussione. Fu in quell’istante che mi colse un pensiero inquietante: gli altri se ne accorsero, lo sentirono vibrare nell’aria, lo percepirono come se si trattasse di un odore attorno a me.
E se tutto questo…
– E se tutto questo fosse esattamente ciò che vogliono loro?
– Vuoi dire gli Altenariani?
– Sì, credo. Restare connessi alla loro rete ha deformato in noi alcuni processi mentali: ma è davvero un sottoprodotto inatteso? Davvero gli Altenariani non ne sapevano nulla? Loro non agiscono mai. Il che non impedisce loro di lasciare che siano altri, ad agire. I nostri superpoteri… Potremmo essere come dei cavalli di Troia, dei gusci all’interno dei quali vivono quei germi che infetteranno il resto dell’umanità. Le idee, le azioni: io e voi potremmo avere successo e con questo diffondere nuovi punti di vista, nuovi paradigmi.
– E tutto questo sarebbe voluto da loro?
– Beh, nessuna azione è necessaria sinché i tuoi vicini di casa tendono a fare tutto da soli. E se poi puoi convincerli a fare a modo tuo, tanto meglio: in una società che non è in grado di restare compatta crei nuovi eroi, personaggi cardine perché influenzino gli altri e ne esasperino i punti deboli. Ci penserà il tempo a polarizzare il gruppo attorno a poli distanti, a spaccare il mucchio, a dividere la società.
Non capii bene se il loro silenzio stava a significare che li avevo colpiti con un pensiero profondo o piuttosto imbarazzati con una sciocchezza. Parlò per primo il Conte.
– Questa è paranoia. Non credo che gli Altenariani possano aver manipolato le nostre menti al punto da…
– Cerchiamo di essere sinceri: non lo possiamo sapere.
– Questo è tristemente esatto. Ma tu davvero ti senti un portatore sano della distruzione umana?
– Beh, forse umana no. Ma su questa stazione coloniale ne stiamo per combinare delle belle. Probabilmente la nostra presenza qui le darà un aspetto ben inatteso…
– Come la presenza di chiunque, se vogliamo. Ognuno di noi ha il potere di modificare il modo in cui si comportano gli altri.
Maledizione, Reno ci aveva preso. Erano praticamente le stesse parole che avevo dette io ad Alice: la volontà individuale contro la volontà popolare. E ora me le trovavo girate contro. Va bene, d’accordo: forse era davvero solo paranoia.
– Avete vinto voi. Non può essere l’iniziativa individuale, quello su cui puntano. Allora quale potrebbe essere l’arma degli Altenariani?

Lo scoprimmo qualche mese dopo. La nostra presenza sulla stazione era ormai più o meno accettata da quelli che ci vivevano accanto, e anche se incontravamo continui problemi con le forze dell’ordine e i loro interminabili controlli, non andava poi tanto male. Il mio lavoro al termoregolatore cutaneo procedeva bene, per quanto ovviamente il Governo di TerraSat si era accorto di cosa stessi combinando e si era messo di traverso nelle mie trattative con i potenziali clienti. I coloni, invece, sembravano essersi adattati molto meglio alle leggi di emergenza che, da quando erano entrati in guerra, avevano modificato le loro vite. Questo, quantomeno, era ciò che avevo capito io: ovviamente mi sbagliavo.
I mezzi di informazione, lì su TerraSat, non esistevano: era così facile aggiornarsi mediante il buon vecchio passaparola che non valeva la pena dedicare preziose forze a una cosa tanto inutile quanto le inchieste giornalistiche. Fu dunque un mio cliente che mi aggiornò sulla novità: a quanto pare a molti giovani piaceva anticipare le tendenze e utilizzare le più recenti novità tecnologiche. Più di uno fu visto recarsi sui campi a torso nudo, con i tappi nelle orecchie, indifferenti alla scoperta disapprovazione altrui. E chiunque sarebbe stato pronto a scommettere che questa sciocchezza non sarebbe durata molto. Poi arrivarono i soldati e le cose presero tutta un’altra piega, improvvisamente pesante per via dei riguardi che i militari le dedicavano. Forse dopotutto non era poi una sciocchezza: avranno ben motivo a reagire tanto duramente. Vennero rotte delle ossa e arrestate delle persone, e chi mi aggiornò non nascose una certa preoccupazione a proposito della sorte del mio prodotto.
Due giorni dopo ci pensò qualcun altro a farmi sapere che cosa stesse succedendo. Mi spiegò che lì da loro i ragazzi più giovani dovevano seguire qualche ciclo scolastico in attesa di crescere e poter cominciare a lavorare sui campi come gli altri. Bene, i professori di questi bimbi, poco più che bimbi a loro volta, si erano presentati in massa alle lezioni indossando il termoregolatore. Solo quello: ragazzi e ragazze. La cosa sfociò in uno scontro aperto tra i ragazzi e la polizia militare, e gli slogan dei primi non avevano solo a che fare con la legalizzazione del mio giocattolo. La loro dedizione mi spaventò: il termo-regolatore stava mettendo a nudo ben più che la loro sola pelle, e quando una maschera cade i più educati si girano dall’altra parte. Guardarci dentro richiede una certa vocazione, e i militari non ne dimostrarono alcuna.

Sinché un mattino venni contattato dal Conte:
– Troviamoci di nuovo. Sta succedendo qualcosa.
Che fosse vero era innegabile, ma probabilmente il Conte si riferiva a qualche cosa che ancora non sapevo. Misi a posto un paio di impegni, mi presi un giorno di riposo e diedi appuntamento al Conte.
Ci incontrammo al locale di Lara, ovviamente: uno dei suoi locali. Ci accolse il suo compagno, uno di TerraSat che avevo già incontrato qualche volta assieme a lei, uno che doveva avere una pazienza esasperante, per poter sopportare i disagi di noialtri esiliati. Una volta dentro vidi che c’erano tutti: ci raccontammo le ultime novità e saltò fuori che io avevo esaurito le scorte della mia precedente produzione, il Conte aveva comprato e fatto prosciugare un lago, Reno aveva consumato la pazienza dei guardiani che lo seguivano ovunque nei suoi lunghissimi girovagare e Lara aveva assoggettato completamente il suo compagno, che si rivelò attento e premuroso. Sembrava che un ciclo fosse venuto a concludersi, per quanto riguardava noi quattro, e che tutto questo prosciugare o esaurire annunciasse l’approssimarsi di un momento di magra o piuttosto di un nuovo inizio. Era stato il Conte a convocarci tutti, così fu lui a entrare in argomento:
– Sono felice di incontrarvi di nuovo. Ovviamente sapete che tutto ciò che ci riguarda è guardato con sospetto dai nostri gentili ospiti, e nello specifico immagino sappiate che siamo circondati da microfoni e telecamere. Quindi tutto ciò che ci diciamo qui lo stiamo dicendo a loro. Sono ragionevolmente certo del fatto che l’equipaggio di TerraSat che è finito anch’esso su Altenar sia prossimo a tornare tra noi.
– Interessante. Ma immagino che un’informazione del genere debba essere riservata. O sbaglio?
– In linea di principio lo sarebbe: ma allo stesso tempo ritengo di non essere troppo lontano dal vero se sostenessi che tutto ciò che sono in grado di venire a sapere giunge in realtà da un’unica fonte, e che questa fonte è il Governo di TerraSat. Vi è qualcuno, all’interno di esso, che ha piacere a che noi si sia a conoscenza di detto rientro.
– Bene, quindi si tratta di una specie di incarico che ci viene suggerito, forse anche imposto. Che cosa dovremmo fare, quindi?
– Provo a ipotizzare: dovremmo capire come mai gli Altenariani abbiano rilasciato i quattro prigionieri e perché; capire se c’è pericolo a prenderli a bordo… e magari capire se noi quattro siamo in grado di dare una mano a questi quattro poveracci per gestirsi il… il dopo.
Fu Lara a cominciare:
– Lei pensa davvero che quest’informazione sia corretta? E che giunga da loro?
– Ne sono ragionevolmente certo.
– In tal caso non vedo perché dovremmo dare loro un aiuto. Ovviamente mi dispiace per i quattro prigionieri, ma la guerra l’hanno voluta questi qui di TerraSat e per quel che mi riguarda se la possono tenere.
– Temo che tu abbia molta più ragione di quello che pensi.
Tutti si voltarono a guardarmi, incuriositi. Mi presi il mio tempo poi cercai di spiegarmi:
– Vedete, qualche tempo fa ho avuto un’idea. Una di quelle intuizioni che ci prendono tutti e che ci assalgono quasi fisicamente. Sapete di cosa sto parlando: di quelle idee quasi tangibili. Ecco, quell’idea di cui vi dicevo riguardava proprio le loro navi e, indirettamente, la guerra. Se avete pazienza…
Il conte fece gli onori di casa:
– Vai.
D’accordo. Vi ricordate quando arrivammo all’hangar, il giorno della nostra fuga? Non vi trovammo nessun’altra nave che la nostra, e quando vi salimmo pensammo che i nostri motori planetari fossero fuori uso per colpa nostra, nonostante nel frattempo fossero passati otto mesi. C’era però un’altra possibilità, ed è che quella nave fosse in realtà in riparazione. Mi spiego: hanno un modo di costruire le navi diverso da come lo faremmo noi. Ne hanno completata una e l’ha usata uno di loro per staccarsi dal groviglio e andarsene da lì. Quello che consideravamo un loro rappresentante era in realtà un profugo, un esule. L’unico che abbia voglia di staccarsi dal mucchio. E che ha utilizzato l’unica nave che avevano costruito. Impiegano parecchio tempo e risorse a costruirne una, ma se lo ritengono necessario lo fanno. Il guaio è che non lo ritengono mai necessario. Lo hanno fatto la prima volta, forse per permettere al loro esule di allontanarsi dal gruppo, cosa che, ne converrete, è sufficientemente gentile da parte loro: poi lo hanno fatto riparando la nave dopo che l’abbiamo involontariamente riportata sul pianeta: era ormai pronta e funzionante, o quasi, ma ad ogni modo ci stavano lavorando, e quando sarebbe stata pronta ci avrebbero quasi sicuramente fatti andare via spontaneamente. E per entrambi i casi non riesco a capire perché lo abbiano fatto. Ma secondo la loro logica sarebbe servito, e quindi hanno attrezzato quelle navi. Non capiremo mai che cosa fa ritenere loro quando sia necessario muoversi tra le stelle e quando no. Hanno un altro modo di concepire la società, la convivenza, l’allontanarsi dagli altri. Forse è per questo che le navi tornano automaticamente su Altenar. E ora questi altri quattro: il fatto che ci abbiano impiegato meno tempo a tornare indietro potrebbe significare che la nave è stata danneggiata meno, o che qualcosa ha accelerato i tempi di riparazione e allestimento. Sta di fatto che i quattro di TerraSat non sono mai stati prigionieri, così come non lo siamo mai stati noi, e che ora possono tornare a casa senza problemi.

Il compagno di Lara emise un gemito soffocato, una specie di grugnito di cui subito si pentì: nel silenzio più assoluto quel suo sfogo si era sollevato come uno stridore altissimo, e quel locale doveva averne sentiti parecchi, di silenzi. Mi guardavano tutti intensamente, come a cercare conferma nel mio volto dei pensieri cui avevo appena dato voce. Reno si schiarì la voce.
– Tu stai cercando di insinuare che per otto mesi siamo stati confinati su di un pianeta disgustoso senza essere prigionieri di nessuno?
– Reno, calmati: mi rendo conto che…
– No, non ti rendi conto affatto, invece. Mi stai prendendo in giro, stai prendendo in giro tutti quanti. Noi abbiamo sofferto quello… quello schifo, e tu ora mi dici che non è stato vero niente?
– Io ti sto dicendo che quello che è successo non è stato quel che pensavamo, e che abbiamo usato parole inadeguate.
– Parole?! Mi parli di parole, adesso? Dopo tutta quella… quella roba per cui parole non ne possono esistere?
Intervenne il Conte:
– Reno, aspetta. Anche io sono curioso di capire, ma così stai…
– No, Conte, qui si sbaglia: solo lei è curioso di capire. Io no: non mi interessa. So bene che cosa sia successo, lassù, e non mi riguarda la scelta delle parole con cui definirlo. Io non voglio in nessun modo che questa cosa venga passata sotto silenzio o sminuita solo perché questo qui vuole parlare di parole.
Si alzò in piedi e uscì dal locale seguito dal Conte, che cercava di calmarlo. Non parlammo finché il conte non tornò, da solo. Si risedette al suo posto, si prese la testa tra le mani poi mi guardò e si rialzò. Ci ripensò e tornò a sedersi, questa volta lì dove stava Reno. Aspettavano tutti.
Il compagno di Lara si schiarì la voce e chiese:
– Lara diceva che la guerra l’abbiamo voluta noi di TerraSat e che ce la saremmo potuta tenere. E lei ha risposto che aveva più ragione di quanto pensasse. Che cosa intendeva dire?
Lo guardai prima di decidermi.
– Vedi, al tuo Governo piace far credere che l’essere umano sia in guerra con gli Altenariani. Sono troppo diversi da noi, non ci potrà mai essere altro che contrasto, anzi, facciamo così: il contrasto c’è sempre stato. Li tranquillizza, pensarlo. Il potere che affidano alle parole è immenso e questo ogni volta ci devia. Gli Altenariani non ce le hanno, le parole, e difatti loro non ci hanno mai dichiarato guerra. Così come non ci hanno mai tenuti prigionieri.
Il Conte si alzò e se ne andò. Sentimmo i suoi passi fino all’uscita e poi ce lo immaginammo per strada, lui e il poliziotto che lo avrebbe seguito a debita distanza. Mancavano solo altri due poliziotti, se avevo fatto bene i calcoli. O forse meno. Io guardai Lara e lei mi fece un cenno di assenso.
– Vedete, la differenza tra noi e gli Altenariani non riguarda il modo di comunicare. O la volontà individuale contrapposta a quella popolare: la differenza tra noi e loro riguarda il modo in cui si è liberi. Noi usiamo il linguaggio e diffondiamo con quello delle idee; ci rappresentiamo il mondo che ci circonda e lo dipingiamo a nostra immagine e somiglianza. Ci inventiamo precetti e riti, dichiarazioni, matrimoni. Ci inventiamo una cultura e la seguiamo, senza quasi mai metterla in discussione. Qualcuno lo fa, ogni tanto: ma chi mette in discussione la cultura dominante viene messo ai margini della società: chi divorzia, chi abortisce, chi non partorisce.. Tutti gli altri sono condizionati dalla cultura, e questa viene creata solo tramite il linguaggio; e quindi alla fine è così, il linguaggio dopotutto non ci rende affatto liberi ma ci vincola alle parole che usiamo.
Finii appena in tempo: la testa del compagno di Lara ciondolò più vistosamente di prima e stramazzò sul tavolo con un tonfo netto e lapidario. Lei mi guardò con aria didascalica e mi mostrò una boccetta senza dire nulla. Io ripresi a parlare, affinché le forze dell’ordine non percepissero alcuna differenza; Lara nel frattempo spostava da lì il suo ex-compagno e io dovetti concentrarmi su qualche cosa di sensato:
– Loro per contro non parlano, gli Altenariani, e vivono attaccati gli uni agli altri, privi di una propria identità; vivono di percezioni immediate, non di rappresentazioni: in questo modo non subiscono condizionamenti e, pur nella loro assenza di identità, sono liberi. Più di noi. Ecco come la penso.
Lara si era avvicinata a me e mi aveva messo le braccia attorno al collo. Non lo so come le fosse venuta in mente quell’idea, ma del resto ormai le idee, per noialtri, si erano rivelate un groviglio selvaggio e non addomesticabile. Mi baciò appena finii di parlare e successe.

Vidi nuovamente i quattro su Altenar. Che non erano più su Altenar. Li percepii dentro di me: attorno alla mia testa, a dire il vero, che nel frattempo si era fatta ampia e cavernosa. Sentii dolore e vidi sangue. La bocca mia e quella di Lara, unite, aleggiavano dinanzi a me, e con me irradiavano un controllo deciso sulle immagini che ci fluttuavano attorno. Dirigevano i flussi, stabilivano contatti. E intanto, cosa che apprezzai, continuavano a baciarsi. Vidi i quattro immersi in un pannello di controllo liquido e totalmente imprendibile, inafferrabile: non erano leve, però, né bottoni o schermi… nulla che abbia a che fare con un’astronave, un mezzo con cui perdere la strada per casa. Era invece un fluido, quello stesso fluido potente e concentrato che controllava tutto ciò che ci arrivava in testa, a tutti e sei. Era giunto il momento di parlarsi un poco. Non lo so come le fosse venuta in mente quell’idea, ma mi piacque.

Gli agenti incaricati di sorvegliarci dovettero sospettare qualcosa, dopotutto, ma noi fummo più veloci e non fornimmo loro l’occasione di fare irruzione nel locale. Io salutai Lara e il suo silente compagno e uscii. Subito mi s’incollò alle scarpe il mio angelo custode, forse già pronto ad agire in altro modo, e me lo portai a spasso per un poco. Lara, nel frattempo, non venne disturbata: pensavano che fosse ancora in compagnia di quell’altro poliziotto, quello sottomesso e paziente, con il quale peraltro lei continuò a parlare per un pezzo. Quando poi uscì dal locale ci misero parecchio tempo per decidersi a seguirla, visto che si accorsero tardi che in realtà era sola. Lei riuscì a eludere la loro sorveglianza e sparì. Riapparve giusto in tempo per darmi una mano con il mio custode: lo lasciammo in un campo e corremmo verso le cellule di salvataggio. Con la tessera del mio ex-angelo entrammo in una navetta di emergenza e ci sganciammo dalla stazione coloniale TerraSat appena fu possibile. Non controllammo nemmeno la dotazione di bordo: ci sarebbe bastato poter resistere una settimana. E nel frattempo avevamo trovato altro da fare.

Cinque giorni dopo avvenne il rendez-vouz. Il patto con i quattro era stato semplice: loro ci avrebbero condotti a LunaSat e noi in cambio avremmo spiegato loro come funzionava questa porcheria che si ha in testa dopo aver incrociato gli pseudopodi sul proprio cammino. Sapevamo di cosa stavamo parlando, quindi a loro convenne, quindi accettarono. Impiegammo un giorno soltanto a localizzare e abbordare la stazione. Mi risulta poi che due di loro vollero tornare a TerraSat, forse più per riconsegnare la nave che per fedeltà alla patria, ma nessuno di loro si pentì mai dello scambio. Né mi risultano pentimenti da parte mia o di Lara. Sino a oggi, quantomeno.

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Laurel Samua
Giovane immigrato sudanese, deve il suo buffo nome alla passione che il padre ha per lo ska e per Laurel Aitken. Studia e lavora in Italia ormai da anni e scrive prevalentemente in italiano. Non è mai stato su una stazione coloniale, sinora, ma pensa di recuperare presto il tempo perduto. Ah, e vi saluta.

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(marco manicardi)
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